
Paolo Fresu, Yoga e Jazz
Trombettista di fama internazionale, Paolo Fresu è neo ambasciatore della musica Jazz nel mondo dello yoga
di Guido Gabrielli

Il Suono della ricerca
Paolo Fresu è un abbecedario di suoni e pensieri (immagino per lui siano equivalenti) che lo hanno portato a girare l’universo sonoro partendo dal suo centro del mondo, Berchidda (Olbia), a 11 anni, ed abbracciare con il suono della sua tromba tutte le frontiere possibili.
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Paolo Fresu, un nuovo orizzonte
Nel corso della manifestazione “Yoga e Jazz”, promossa da Yoga Mind, Psolo Fresu si è confrontato con una nuova frontiera, lo Yoga. Sarà musica e spirito sonoro di una classe di yoga dal vivo, per l’apertura della manifestazione “Yoga e Jazz “che si svolgerà presso l’Orto Botanico di Città Studi a Milano (insieme ad Elena De Martin – vedi la sua pratica di Astanga Yoga ). Praticare lo yoga e praticare il jazz hanno molto in comune: la disciplina per trovare la tecnica di una espressività interiore. Suggellata, in questo caso, dall’incontro con una mente curiosa e pacifica.
«Alla fine dei miei concerti, molti spettatori mi chiedono se pratico yoga. Immagino dipenda dalle posture che assumo sul palco. Non l’ho mai praticato, quello che accade sul palcoscenico è un lavoro naturale per me che affonda le sue radici in un tempo remoto. Le mie posizioni non sono specifiche, ma emergono dalla pratica costante della mia disciplina».
Una delle caratteristiche stilistiche del tuo suono e modo di suonare risiede nel tenere alcune note ferme anche per lunghi intervalli.
Si, note molto lunghe, ma solo con il fiato. Amo trovare questa essenza sonora, quasi che una sola nota possa raccontare il mondo, indipendentemente da una melodia. Molti anni fa andai in India per una tournée e rimasi colpito, in un concerto, da un flautista indiano che tenne per 7 minuti consecutivi una singola nota. Per me fu strabiliante sia dal punto di vista tecnico che emotivo.
L’uso del respiro è centrale nello yoga. Come sei arrivato alla tua tecnica?
La tecnica è una respirazione circolare, inspiro e respiro contemporaneamente, potrei andare avanti 20 minuti. È facile da descrivere, più difficile da realizzare. In pratica si tratta di coordinare tutti i muscoli che si possono utilizzare durante questo tipo di respirazione. Quindi la lingua, le guance, la mandibola, la gola, le labbra ed i muscoli addominali. Le gote delle guance diventano una riserva d’aria e mentre sto espirando con la bocca nella tromba contemporaneamente sto ispirando con il naso. L’ho appresa dai suonatori di launeddas, uno strumento polifonico della tradizione sarda, ma viene utilizzata anche dai suonatori di didgeridoo in Australia. Mi sono sempre meravigliato di questo binomio, in due parti così lontane nel mondo.
Quali sono gli effetti sul corpo e sulla espressività musicale?
In questo modo il corpo ha una riserva d’aria perenne e permette alla nota di non fermarsi mai. Da qui ho poi elaborato questa filosofia di utilizzare questa singola nota, processandola attraverso macchine elettroniche per un lavoro sul piano della dinamica (piano e forte), delay e altro. È una tecnica che mi permette di lavorare sull’essenza sonora. E in questo ha a che fare molto, credo, con lo yoga. Mette in atto una forma di rilassamento del corpo, ma anche di sincronizzazione degli eventi. Tutto deve avere una sua lucida consapevolezza: aria che entra e che esce, valvole interne che si aprono e si chiudono, un legame con il pensiero musicale che si ha in testa, e soprattutto richiede di rimanere molto morbidi, altrimenti il corpo non riesce a sostenerti.
Sono abbastanza iconiche le tue posture sul palco mentre suoni.
Non insegnerei mai ad un allievo di conservatorio queste posizioni, o forse si. Se mi vedesse un professore probabilmente inorridirebbe! Ma la tecnica, per ognuno di noi, è quella che funziona quando ci si trova bene con se stessi.
Che importanza ha la tecnica per trovare la propria espressività?
È una ricerca profonda, che porta a una ricerca non solo musicale. Noi come musicisti esprimiamo attraverso gli strumenti emozioni e pensieri. È necessario molto studio e trovare una propria tecnica per manifestarli nel rispetto delle proprie qualità. Se parliamo di tecnica tradizionale, ci sono sicuramente musicisti che fanno 10 volte più note di quelle che faccio io, ma per me tecnica è saper portare i propri pensieri sullo strumento. Io faccio poche note e prediligo il silenzio, quindi la mia tecnica si orienta in quella direzione. Arrivare all’espressione di quella nota unica che è l’annientamento di certa espressione ginnica della musica che mi interessa meno.
Cosa è lo spazio per la musica?
La musica orientale crea più spazi sonori in cui immedesimarsi?
Assolutamente sì. Il rapporto con il suono è più vicino alla persona e alla sua esistenza. È impensabile in un contesto occidentale fare una nota singola per 7 minuti. Le musiche orientali e africane sono culture in cui la funzione mistica e religiosa è molto forte, non sono legate all’intrattenimento; quindi hanno bisogno di spazio e accoglienza. Il musicista jazz ha bisogno e si nutre di ricerca su se stesso; quando ha bisogno di una spinta in più nella ricerca tra musica e spiritualità si rivolge frequentemente a culture mistiche orientali e medio-orientali, a volte anche cambiandosi nome: Coltrane, Gillespie, Rollings, Ahmad Jamal.
Cosa ti aspetti da questo incontro di improvvisazione tra Jazz e Yoga?
Mi spinge la curiosità, mi sembra una esperienza importante da fare. Quello che conosco dello yoga l’ho letto sui libri e attraverso la testimonianza di mia moglie o di alcuni collaboratori. Cercherò un dialogo tra insegnante e praticanti, cosi come faccio ogni giorno con i musicisti e le persone. Un dialogo per cercare una comunione: sarà comunque qualcosa di importante.
Cosa ti aspetti da questo incontro di improvvisazione tra Jazz e Yoga?
Bandoneón e tromba, insieme a Daniele di Bonaventura. Due strumenti apparentemente lontani ma che vivono d’aria entrambi, e ci riportano di nuovo al respiro dello yoga.