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Morte, una diversa prospettiva

di Emina Cevro Vukovic

illustrazione di Jason Ratliff

 

morte diversa prospettiva“Un allievo dice al Maestro: «Come faccio a prepararmi alla vita?» Il Maestro gli risponde: «Preparati alla morte» Allora l’allievo replica: «E come faccio a prepararmi alla morte?» Il Maestro risponde: «Preparati alla vita»”

 

Richard Freeman, stimato maestro di Ashtanga Yoga a Boulder, Colorado, conduce gli allievi a vedere la dissezione dei cadaveri nelle aule di anatomia per aiutarli a guardare in faccia la loro realtà di essere umani, mortali. La contemplazione della morte è un esercizio spirituale proprio a molte tradizioni: la maestra yoga Gabriella Cella Al-Chamali raccontava a noi allievi di aver partecipato a meditazioni buddhiste dove veniva guidata a visualizzare il proprio cadavere e la sua decomposizione. Nello specifico dello yoga, la lezione di Freeman è perfettamente in linea con la tradizione più classica. Shiva, che in India è la divinità protettrice dello yoga, si manifesta in molteplici aspetti, e uno di questi è Sadhu Shiva che medita nei luoghi di cremazione, nudo (perché al di là dei condizionamenti mondani) e coperto di cenere, simbolo di morte e rigenerazione. Questa immagine della divinità rappresenta la giusta attitudine che dovrebbe avere uno yogi: lo yoga è una sadhana, una via di liberazione dalla paura della morte, con cui dunque è necessario confrontarsi.

 

La grande amica

Nella visione induista sottesa allo yoga classico, la fine della vita è, per chi raggiunge l’illuminazione, liberazione dal ciclo doloroso delle rinascite. In questo senso lo yoga – come cammino verso l’illuminazione – è una via per sconfiggere la morte, non certo impedendo l’inevitabile deterioramento e decesso del corpo, ma piuttosto scongiurando un’altra rinascita. La maestra indiana vivente Vimala Thakar ha detto: «Non c’è miglior amico della morte: è il grande supremo amico. Il grande amico ci aspetta alla porta: ricorda questo e tutto il resto sarà semplice e facile».

 

La visione occidentale

Questa visione è diametralmente opposta a quella dominante nella cultura occidentale del Novecento, che ha lanciato una vera guerra alla morte e propone un’interpretazione del corpo come “macchina” che si può sempre riparare portandola dal medico-meccanico, fino ad arrivare agli eccessi dell’accanimento terapeutico. E così a volte perfino lo yoga diventa oggi una specie di ricerca della salute perfetta, un modo per scongiurare la vecchiaia, un’esaltazione del corpo. Non si muore più perché si è vissuto, ma perché è successo qualcosa, quasi che se fossimo stati più attenti, se avessimo mangiato meglio e praticato di più avremmo potuto scongiurare la vecchiaia e l’indicibile morte. Un piccolo esempio, tra i milioni che si potrebbero fare: un’amica che lavora come assistente sociale in un centro per anziani ha dovuto affrontare parenti furiosi per il decesso, dovuto a complicazioni respiratorie, di una persona di 94 anni. L’hanno assalita con l’accusa: «Avete aperto la finestra per cambiare l’aria e l’avete fatta ammalare!». Quando non si vede più la naturalezza e l’inevitabilità della fine della vita, ogni decesso diventa “un errore”. In questa cultura, si considera ineducato ricordare a un individuo la sua mortalità e si dice “vedrai che guarirai” al malato terminale. Questo “errore” lo si vede ogni giorno in televisione, nei giornali, nei film.

 

Saper ricevere

Non voglio dire che sia facile confrontarsi con la morte o accompagnare i propri cari alla fine della vita, ma forse può ritornare a essere naturale. Attualmente il 70 – 80% delle persone in Europa muore negli ospedali: ma come va diffondendosi la richiesta del parto a domicilio, così aumenta quella di morire a casa propria, circondati dall’affetto di parenti e amici, oppure in strutture accoglienti (hospice). Anche molti insegnanti di yoga si sono avvicinati a questo impegno volontario, come Mari Sanvito Colombo che ha scritto nel n.8 di Percorsi Yoga (trimestrale dell’associazione insegnanti della YANI): «Vorrei sottolineare che è la mia pratica personale del respiro che mi ha permesso di stare accanto alla persona che soffre e che sta morendo. Questa pratica persona le mi dà la forza di esserci. Quando sono vicina al malato, mi tengo sempre sul filo del respiro, leggero, spesso nel silenzio. Già stare nel silenzio, respirando tranquillamente, è un aiuto». L’esperienza di questi e altri ricercatori spirituali ci dice che passare del tempo accanto a un morente è un grande privilegio che necessita di un po’ di preparazione. È un privilegio, perché la morte offre i suoi doni: la consapevolezza di non essere eterni (che porta a non voler sprecare più neppure un momento e dunque a saper dare le giuste priorità); la comprensione della nostra fragilità; la memoria del limite (e dunque la nascita di una vera compassione per noi stessi e per gli altri, che ci fa diventare più gentili, più generosi, più solidali); la capacità di affrontare le difficoltà della vita. Ricorderò sempre lo sguardo luminoso del maestro Radames Silvestri che, ottantenne, ogni mattina dopo la meditazione si incantava della bellezza della sua Venezia gioendone profondamente.

 

La strada dello yoga

La morte diventa invece tragica quando mette a nudo le contraddizioni che non si è saputo risolvere in vita. Chi non ha fatto i conti con il proprio vivere a termine, chi ha tralasciato di dare tempo alla riflessione non può che ritrarsi spaventato davanti al pensiero della morte e davanti al morire concreto di un uomo. Mentre lo yoga, quello che non rinnega l’immagine di Sadhu Shiva, può essere di grande aiuto, perché ci abitua all’ascolto, all’essere presenti, aprendo la sensibilità. Già la semplice Savasana, la Posizione del Cadavere, può aiutare, se vissuta non solo come momento di riposo, di rilassamento ma anche come prefigurazione di un abbandono fiducioso. E ci può aiutare il lavoro sul respiro, sulla sospensione del respiro e la consapevolezza della meditazione. Può aiutare anche iniziare la pratica con una prostrazione alla terra a cui torneremo o con l’accendere un incenso per ricordare la catena dei nostri antenati di cui noi siamo un anello. Sono tutte pratiche che aprono la coscienza a una dimensione più vasta, libera dalla paura.

 

Il lutto, un momento di trasformazione profonda

Intervista a Marina Sozzi

marina sozziNel suo libro, lei racconta di lutti bloccati, cronici. Perché succede e che cosa si può fare?

Marina Sozzi C’è in effetti un aumento di lutti bloccati dai quali non si riesce a uscire ricostruendo, pur nella memoria del defunto, una nuova vita costruttiva. Le ragioni sono molteplici: una è certamente che oggi noi abbiamo abolito ogni tipo di ritualizzazione dell’esperienza del lutto, ritualizzazione che è invece uno strumento prezioso per consentire alle persone di sentirsi accompagnate attraverso il dolore. In qualsiasi situazione, il dolore senza accompagnamento è molto più difficile da tollerare. La nostra società mal sopporta chi dice “sto male”, chi dice “no, non vengo, non me la sento”. C’è proprio un’ideologia dell’essere dinamici, proiettati verso il futuro, e chi è addolorato esce da questo schema. Si cerca quindi di farlo rientrare il più in fretta possibile, ma se il dolore perdura più a lungo di quello che gli altri giudicano opportuno, nessuno più aiuta. Per questo oggi le persone in lutto fanno molta più fatica di una volta a superare la sofferenza.

 

In questi casi può essere utile iscriversi a un gruppo di mutuo aiuto?

La condivisione è importante. I gruppi di mutuo aiuto sono un sostituto della comunità che esisteva nei paesi, sono una comunità di elezione con persone che stanno passando la stessa esperienza. Oggi non sono ancora abbastanza diffusi e, quando si sente di stare troppo male per un lutto, è più frequente rivolgersi allo psicologo-psichiatra. Io però ho visto arrivare ai gruppi di mutuo aiuto persone che avevano già fatto un percorso di analisi che non era servito. Perché il lutto non è un problema psicologico, è un problema esistenziale. La nostra società ha lasciato il lutto alla psicologia così come ha lasciato la morte alla medicina, per cui manchiamo di strumenti per convivere con queste esperienze esistenziali.

 

Lei sostiene che dal lutto non si “guarisce”.

Il lutto non è soltanto dolore e depressione: è anche un periodo sospeso in cui una parte della propria esistenza si sgretola e occorre ricostruire un nuovo modo di stare nel mondo. Da questo punto di vista se io come soggetto in lutto mi aspetto di “guarire”, di tornare a stare come prima, non ce la farò. Bisogna capire che il lutto è cambiamento e necessità di trasformare la propria esistenza, cercando delle altre modalità di stare nel mondo che vanno costruite.

 

Marina Sozzi

Docente di tanatologia all’Università degli studi di Torino, in “Sia fatta la mia volontà” (Ed. Chiare Lettere) propone una sentita riflessione sui riti e sui modi di interpretare la morte. Si sofferma, nella parte finale del libro, sul misconoscimento culturale del lutto. Un’esperienza che porta disorientamento, dolore e che spesso è svalutata, sottovalutata o curata come fosse una depressione. Ha diretto la Fondazione Fabretti, dedicata allo studio della morte, e insegnato Tanatologia storica all’Università degli Studi di Torino. Cura un blog dal titolo “Si può dire morte”.

 

 

In molte città italiane esistono sportelli di ascolto e di orientamento e gruppi di sostegno al lutto gestiti da associazioni di volontariato:

Associazione Gruppo Eventi

gruppoeventi.it

Associazione AMA

automutuoaiuto.it

Associazione Maria Bianchi

mariabianchi.it

(offre la possibilità di un buon appoggio anche online).

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