
Digiuno: come affrontarlo
di Padre Antonio Gentili
La presenza del digiuno nella vita, rientra nel carattere bipolare della nostra esperienza che oscilla come un pendolo tra Cielo e Terra, vita e morte, uomo e donna, corpo e spirito, fatica e riposo, giorno e notte… Già, giorno e notte; infatti, a ben vedere, l’essere umano ha bisogno di quel “digiuno” che coincide con le ore notturne, per cui si può dire che, anche sotto il profilo alimentare, metà della giornata rimanda alla tavola con i suoi alimenti e l’altra metà ci prescrive di astenercene. Secondo l’insegnamento degli antichi, i cibi costituiscono la prima nostra medicina e operano in favore della salute insieme alla loro astensione. “Beato quel corpo che per l’anima lavora”, recita un proverbio. E il corpo lavora non soltanto quando si nutre, ma anche – e soprattutto – quando digiuna. Diciamo: soprattutto, perché quando il corpo è restituito a se stesso (come avviene nel sonno) dispiega al massimo la propria forza rigeneratrice e guaritrice.
Affrontare il digiuno
Esso rappresenta un riposo fisiologico che favorisce i processi di disintossicazione dell’organismo, per lo più sovralimentato (non si dimentichi che le malattie del benessere fanno più vittime delle guerre e che 60 milioni di italiani mangiano per 80).
Queste le condizioni per praticarlo:
1) Accettazione e gradualità, che ne garantiscono gli effetti, come per ogni altra terapia;
2) Uno stato fisico, psichico e spirituale in cui si evita la dispersione di energie (sovraffaticamento, stress, ecc.);
3) Scelta di un ambiente opportuno: per trarre il maggior beneficio dal digiuno, dobbiamo intraprenderlo nell’ambiente adatto, in uno stato di pace e quiete;
4) Tempo per praticarlo. Scrive san Giovanni Crisostomo (ca. 345-407), uno dei grandi maestri cristiani: «Il digiuno è una medicina (fàrmacon) per cui occorre conoscere il tempo opportuno (kairòs) in cui servirsene e la quantità (posologia) del farmaco e le condizioni climatiche e la natura della regione e la stagione dell’anno e una congrua dieta e molte altre cose». Vale comunque il principio che «il digiuno è utile in ogni tempo per chi lo intraprende di buon grado».
Kippur ebraico, Quaresima cristiana, Ramadàn islamico…
Tutte le tradizioni spirituali e religiose conoscono la pratica del digiuno. Per restare in ambito cristiano ricorderemo le quattro settimane annuali dette “Quattro Tempora” che, nell’antica cultura agricola, comportavano pratiche di penitenza e preghiere (“rogazioni”), con cui si invocava la benedizione sulla terra, la seminagione e il raccolto.
Nella Leggenda aurea Jacopo da Varagine (1228 – 1298) spiega le ragioni del suddetto digiuno che abbracciava tre giorni, il mercoledì, il venerdì e il sabato: «Digiuniamo in primavera per tornare innocenti come fanciulli; in estate per essere forti come adolescenti; in autunno per essere saggi come si addice all’età matura; in inverno per ottenere la santa vita e la prudenza dei vecchi oppure per riparare le colpe commesse nelle altre stagioni».
Purificazione integrale
Una delle iniziative che da un quindicennio ha inteso “rilanciare” la pratica del digiuno in ambito cattolico, è costituita dalle Settimane di digiuno e meditazione per la purificazione integrale. Il fatto di unire al digiuno – che è totale – l’esercizio meditativo, richiama l’insegnamento di Gregorio Magno (540 ca.- 604), pontefice e dottore della Chiesa, che afferma: «Non può astenersi dai cibi materiali, chi non nutre il proprio animo con cibi spirituali». Uno dei partecipanti testimonia: «Questi sono esercizi spirituali integrali. Si tratta di un’esperienza che, rispetto a quelli tradizionali, rappresenta un salto di qualità». Il corpo, infatti, non mente: è il “linguaggio dell’anima” e un implacabile registratore del proprio vissuto. Metterlo in condizione di parlarci, restituendolo a se stesso e togliendogli l’indispensabile “stampella” del cibo, significa raggiungere il nostro mondo interiore per via diretta. È stato definito «un viaggio all’interno di sé… un guardare in profondità dentro il proprio cuore… una conquista di se stessi», apportatrice di un triplice beneficio: «crescita spirituale, benessere mentale, risanamento fisico».
Simboli
Carattere antropologico. Il digiuno rientra nella “logica” dell’esistenza umana: è un “bisogno” come quello del cibo. È regolato dall’istinto prima che dalla ragione.
Carattere religioso. Unito alla preghiera, e praticato in un contesto spirituale, il digiuno:
- riconduce allo stato originario dell’umanità, prima del peccato che significativamente la Bibbia lega a un frutto;
- manifesta la gratitudine che la accompagna, nonché la dipendenza dal Creatore;
- è l’equivalente del “sacrificio cultuale”, espressione massima del rapporto uomo-Dio.
- riveste un ruolo penitenziale di riparazione in ordine al peccato individuale o collettivo legato all’oralità;
Carattere sociale. Costituisce infatti un gesto di:
- condivisione, se quanto è oggetto di rinuncia viene donato a chi ne ha bisogno;
- riparazione, per lo spreco e perciò stesso la sottrazione di beni a danno dell’umanità;
- di intercessione e d i “pressione sociale” ( si pensi ai digiuni di Gandhi…).
Carattere cosmico-ecologico. Il digiuno consente di ripristinare l’equilibrio tra risorse e consumi: si passa dall’ecologia personale a quella cosmica
Dal corpo, la salvezza
E tutto…a partire dal corpo! «La carne è cardine di salvezza», affermava il grande apologeta dei primi secoli cristiani, Tertulliano (160-220), in riferimento ai sacramenti che si radicano nella fisicità, nella materia: basta pensare al pane e al vino della messa! Ma questa frase può essere benissimo applicata a una pratica, come il digiuno, che vanta lo stesso punto di partenza: la carne, ossia il corpo. E mentre la vita quotidiana lo penalizza con il disordine alimentare, il digiuno lo disintossica e lo risana. Quanti vi si sono sottoposti, riconoscono che la sua pratica li ha resi «molto attenti a ciò che viene introdotto nel nostro organismo, sia come alimentazione materiale sia come stimoli esterni»: ci si nutre infatti anche di immagini, di suoni, di emozioni e di pensieri suscitati dalle diverse circostanze della vita. È quindi una lotta contro i condizionamenti, che prima ancora del corpo intasano l’anima. Con ciò non si intende sottovalutare la fatica cui ci si sottopone digiunando. Per certi aspetti il digiuno rappresenta uno stress a carico del corpo. Non mancano momenti di crisi, peraltro segnalati fin dall’inizio ai digiunatori. Una volta superati – attesta uno di essi – «si raggiunge un senso di benessere, leggerezza e forza che non penseresti di avere». Un altro riconosce che si tratta di «giorni difficili, ma che apportano tanta pace. Le prove che concernono il fisico sono indispensabili in questo cammino di ricerca di sé». Su questa linea si infittiscono le testimonianze: «Mi sono autocurato; ho scoperto un alto potenziale interiore che ha ridestato in me energie sottili. Alla fine del digiuno mi sentivo “in forze” più di prima… Ho scoperto una forza che non sapevo di avere… Mi sono sentito pulito, energico, lucido, sereno».
Un atto di “riparazione”
La pratica del digiuno si risolve per molti in una riappropriazione del corpo, nel ristabilimento di un nuovo rapporto fatto di «tenerezza e amore», per non dire che astenersi dai cibi nel contesto della “Settimana” è una vera pratica di “riparazione” di tutti gli eccessi della gola, e questo non soltanto in senso morale, ma anzitutto fisico. Quante scuse dobbiamo porgere al corpo per tutte le sofferenze, anche se ammantate da gratificazione, che gli infliggiamo adducendo a scusa bisogni che ci paiono irrinunciabili! «Più vai in profondità – e il digiuno obbliga a farlo – e più purifichi ed elevi i desideri», ha sostenuto uno dei partecipanti. La pratica fisica, dunque, è una porta verso la dimensione spirituale, accresce «l’amore per l’autodisciplina».
Questo è dovuto anche al fatto che ai frequentatori delle “Settimane” viene chiesta una duplice astensione concernente l’oralità: dai cibi (digiuno in entrata) e dalle parole (digiuno in uscita). Le due modalità si integrano e si sostengono a vicenda, come attestano unanimemente i partecipanti, se è vero che con l’astensione dagli alimenti viene favorita quella profonda introspezione che conduce alla pacificazione dei pensieri e dei sentimenti. Poco varrebbe, infatti, il digiuno materiale se non fosse accompagnato dal digiuno della mente, segnata dai suoi grovigli. Scrive in merito Etty Hillesum (1914-1943) nel suo Diario: «Ecco che spunta fuori un “problema cibo”… Io mi rovino lo stomaco semplicemente per mancanza di controllo… So che dovrò pagar caro quel po’ di piacere…, ma non potrò mai più incolpare il mio corpo».
Un atto divino
Il cibo infine riveste un significato antropologico, coinvolgendo corpo e spirito, nonché la dimensione sensoriale/affettiva, e simbolico, unendo convivialità a sacralità. La mensa infatti è il luogo dove sperimentiamo la Provvidenza che regola l’ordine cosmico e nel contempo beneficiamo di un’opportunità che unisce e affratella. Di conseguenza, prima e dopo i pasti invochiamo e trasmettiamo (con l’imposizione delle mani sulle vivande) la benedizione divina, ringraziando con il cuore: il Padre celeste, datore d’ogni bene; il Creato, che ci offre gli alimenti e l’Uomo che li coltiva, li trasforma, li confeziona e ce li offre.
Il Decalogo a mensa
Al di là di quelli che abbiamo considerato finora, vi è un aspetto delle “Settimane” che viene ritenuto determinante: il fatto che si tratti di un’esperienza di gruppo. «L’energia del gruppo è magica», si riconosce, dal momento che si crea tra i digiunanti una vera osmosi e l’uno è di sostegno all’altro. «Mi sono sentito come uno strumento accordato in un’orchestra». E ancora: «Ognuno ha potuto esprimere il meglio di sé e ha potuto portare a casa un pezzo dell’altro». Portare a casa… Da qui la consegna: «Digiunare, mangiando». Il vero “digiuno”, il suo “spirito”, si manifesta mentre assumiamo cibi e bevande. Si tratta di quella moderazione che ha in sé il segreto di una vita sana e felice. E per richiamare i benefici del digiuno, ecco un prezioso Decalogo, che parte da quattro domande: dove mangio; quando mangio; come mangio e infine… cosa mangio?
Mangiare per nutrire l’anima
1) Porsi in stato di consapevolezza, così da rendersi coscienti di ogni aspetto di quanto stiamo vivendo, nonché della natura, della preparazione, del gusto dei cibi. Mangiando consapevolmente vedremo che ogni pasto si trasforma in un rituale. Può essere utile fare silenzio a mensa, almeno una volta alla settimana
2) Osservarsi mentre si mangia: in che attitudine ci poniamo nei confronti dei cibi, quantità che ne prendiamo, “volume” dei bocconi, ritmo con cui li assumiamo. La mensa è un test: nel modo con cui mangiamo riveliamo il nostro stato d’animo, il nostro modo di rapportarci con le cose, noi stessi, gli altri.
3) Accogliere, non divorare, considerando gli alimenti come un dono offerto. Per un migliore dosaggio del cibo e prevenire la sovralimentazione.
4) Mangiare, trattenendo in bocca e masticando i cibi fino a renderli insipidi, dal momento che la loro sostanza vitale viene ceduta al palato e la prima digestione si verifica in bocca.
5) Trattare i liquidi da solidi e rendere i solidi liquidi, così da essere gustati fino in fondo e deglutiti senza sforzo.
6) Mangiare solo a tavola e non assumere cibo fuori pasto, salvo il caso che si tratti di frutta, che è preferibile scorporare dai pasti e consumare da sola. Ai pasti, disertare il dessert.
7) Bere poco durante i pasti evitando un’eccessiva diluizione dei succhi gastrici, e bere molto fuori pasto.
8) Si chiamano posate, perché vanno deposte sulla tavola tra un boccone e un altro e non brandite come armi
9) Esistono tre bocconi: il boccone della sobrietà (è il boccone di meno, quando ci si allontana da tavola con un residuo di appetito); il boccone della sazietà (quando si raggiunge la misura di cibo sufficiente); il boccone della golosità (è il boccone in più, che prepara le nostre malattie future). Riempi lo stomaco un terzo delle sue capacità.
10) Preferire il meno (grosso, buono, condito, appetitoso) e condividere o cedere agli altri il meglio; evitare i piatti stracolmi.