Leslie Kaminoff: l’anatomia quotidiana e il Dio respiro
Di Francesca Magnani
Leslie Kaminoff ha insegnato yoga per 36 anni e, nel suo studio sulla 26ma Strada a Manhattan, continua a condividere ogni settimana il suo sapere con schiere di studenti ansiosi di comprendere quello che sta dentro il proprio corpo. Kaminoff è autore del libro di anatomia “Yoga Anatomy” che in USA viene usato in moltissimi Teacher Training. Pubblicato in Italia da Calzetti e Mariucci ( è appena uscita la seconda edizione ampliata, più ricca di immagini e asana), è scritto con la collaborazione dell’esperta del movimento Amy Matthews e dell’illustratrice medica Sharon Ellis. In ogni asana, si evidenzia quali sono i muscoli attivi e stimolati, quali sono le leve tra le ossa, come funziona la forza di gravità. E non solo: si indaga a fondo il meccanismo del respiro e anche quello cellulare, da una prospettiva yogica, mai pedante e sempre molto legata al presente. Nel primo capitolo, per esempio, i concetti di shtira-sukha e prana-apana sono metafora del fatto che, come la cellula, anche un essere vivente deve avere contenimento e permeabilità, rigidità e plasticità, persistenza e adattabilità, spazio e contorni.
La lezione del mercoledì
Incontriamo Leslie alla lezione del mercoledì, aperta a tutti. Parte dell’incontro è dedicata ad assistere studenti con particolari problemi, che vengono analizzati e osservati dalla classe: lo studente prescelto illustra la sua situazione e Leslie gli fa molte domande. Oggi c’è Michael, che parla a lungo del suo respiro, modificato in gioventù da una malattia virale le cui conseguenze Kaminoff rintraccia nei suoi schemi motori e linguistici. «Ho sempre fatto arti marziali, e quindi so respirare mandando l’aria nella pancia», esordisce Michael portando le mani sul basso ventre. «Mi auguro proprio di no», lo interrompe Kaminoff, «lì non deve esserci aria, se no avresti subito qualche trauma!». Kaminoff non ha pretese di psicologia spicciola, a lui interessa che il respiro, lo spirito prenda possesso del corpo, e di un certo corpo in particolare. Il suo libro è pieno di immagini “ideali”, in cui i tessuti e gli strati di muscoli vengono messi a nudo. Ma la precisazione che lui fa sempre è che non esiste il corpo ideale, né l’allineamento ideale, né la posizione ideale, e neppure il movimento ideale. Gli chiedo: «Che cosa crea la difficoltà in un dato movimento, al di là dei limiti anatomici e fisiologici?» e lui subito precisa: «In un movimento da parte di chi? Qualunque cosa io possa dire sugli esseri umani in generale escluderebbe il contesto specifico di una persona in particolare. Solo gli individui fanno yoga, e a questa domanda si può rispondere solamente in relazione a un individuo».
Liberarsi di ciò che non serve più
La sua idea di insegnamento richiama la celebre spiegazione di Michelangelo sul blocco di marmo. Per lo scultore, bisognava non tanto “creare” quanto levare il marmo in eccesso per poter liberare l’immagine, Mosè o angelo o David o Pietà, che lui intravvedeva dentro al blocco. Anche per Kaminoff l’obiettivo è liberarsi da qualcosa e ritrovare ciò che già c’è: «In generale, io dico che non bisogna imparare a muoversi, ma disimparare quello che abbiamo accumulato negli anni e che ora non serve più. Ti muovi in un certo modo perché l’esperienza o la paura ha instillato e installato nel tuo corpo dei meccanismi che il tuo sistema nervoso ritiene siano di sopravvivenza. Per esempio: spesso esamino l’andatura di una persona, la faccio camminare a occhi chiusi fino a raggiungere il punto in cui io sto in piedi. Una volta, una studentessa si ferma molto prima e procede con esitazione. Viene fuori che i suoi fratelli le facevano degli scherzi per farla inciampare. In classe non c’è pericolo che io la faccia cadere apposta, ma il suo corpo è “programmato” così. Sta a noi dimostrare che queste tecniche di sopravvivenza sono oramai obsolete, legate a un altro tempo. Io dico sempre che siamo tutti dei sopravvissuti: se in questo preciso istante non sei nella fossa, o in galera o dentro una qualche altra istituzione, sei un sopravvissuto ed è il tuo corpo che ti ha portato qui. Io cerco di far abbandonare quei riflessi involontari che si attivano quando c’è percezione di pericolo ma il pericolo non c’è più! Sono quei movimenti che portano stress alle giunture e ai muscoli e disturbi della postura»
Yoga Journal Che cosa significa per te la frase “si possiede veramente solo quello che si dà?”
Leslie Kaminoff Io la ribalterei: non puoi rinunciare pienamente a una cosa se prima non ce l’hai e non la conosci a fondo. Che si parli di soldi, di tempo, del tuo ego, la confusione porta grande sofferenza. In un’intervista che feci a Madras nel ‘92 al mio maestro TKV Desikachar parlammo proprio di questo, e voglio riportare qui l’esempio che lui mi fece. Nella sua esperienza di terapeuta dispensava anche consigli dietetici, tra cui quello di rinunciare al caffè. Le persone convenivano con entusiasmo che avrebbero smesso di berlo. Dopo due-tre giorni, però, l’aroma, il profumo, il ricordo del sapore della bevanda prendevano il sopravvento e i pazienti ricominciavano a berlo, ma ora non più con piacere, bensì sentendosi come ladri. Poi andavano dal maestro, che chiedeva loro come stesse andando l’esperimento. A quel punto, avevano due chance: o mentire e sentirsi male perché mentivano, o dire la verità e sentirsi male per il senso di colpa. Soffrivano non perché lui gli diceva di non bere più il caffè, ma perché non ce la facevano. Quindi, io dico che bisogna essere pronti: quando rinunci a una cosa devi conoscerla pienamente, e devi avere maturato tu la volontà di rinunciarci, non si tratta di lasciar volare via un foglio bianco. Secondo il padre di Desikachar, Tirumalai Krishnamacharya, la rinuncia era l’ultima fase dalla vita dell’uomo, la Prapatti. Non si può chiedere a un ragazzo giovane di rinunciare al suo ego. Uno deve prima evolvere, sperimentare, godersi la vita, costruire la propria devozione, e forse alla fine della storia, ma solo allora, sarà possibile il vero “dare”.
Come hai scoperto lo yoga?
Volevo danzare, ma ero maldestro e scoordinato. Cercavo qualcosa di diverso, che mi permettesse di reimmaginare il mio corpo. Nel 1978 ho fatto la mia prima lezione Sivananda, nel 79 ho fatto il Teachers Training con loro, e nell’81 e ‘82 ho gestito il centro Sivananda di Los Angeles. Non ho mai avuto un buon rapporto con i corsi di studio formali, ma lo yoga era perfetto per me: mi metteva in comunicazione diretta con qualcosa da cui potevo imparare subito, senza intermediari: il mio corpo. Poi, nel 1987 ho incontrato T.K.V. Desikachar, il mio mito. Ho studiato con lui. Lo yoga è sempre stato il mio unico lavoro.
Che tipo di yoga insegni tu?
Mi piace definirmi “educatore” e non terapeuta o maestro. Lo yoga che io insegno lo definisco “razionale” per differenziarlo da altri approcci e perchè io non credo che questa disciplina vada esclusivamente legata alle sue radici indiane. Mi spiego meglio: i primi yogi erano prima di tutto persone con corpi da ossigenare, corpi con pensiero e respiro che dovevano avere a che fare con la forza di gravità. Gli insegnamenti antichi risuonano in noi solo perchè sono applicabili alla nostra realtà. Io dico chiaramente che non sono una persona mistica. Sono ateo e non sento il bisogno di estendere il mio concetto di spiritualità oltre il piano materiale. Cioè la spiritualità come la intendo io deriva dal mio “spirito”, ossia il mio respiro, la forza vitale che non posso fermare. Non ho bisogno di una divinità, di un altare. Ho bisogno di pelle, ossa, del mio diaframma. Non ho scelta: devo respirare. Ma la mia scelta è: come mi relaziono a questo fatto? Siamo tutti alla ricerca di una vita migliore, con minore sofferenza. Le nostre scelte riguardano il cibo che assumiamo, la gente che frequentiamo, i limiti che ci diamo e l’enorme libertà che possiamo trovare all’interno di essi. Il maestro è sempre il respiro.